Eroi della consolle

Di solito non commento la scomparsa di un personaggio pubblico. Mi pare risvegliare un fanatismo da stadio che non mi appartiene. Farò un’eccezione per David Bowie.

Credo fosse il 1980. conducevo un programma in una “radio libera” che sarebbe più corretto definire commerciale. Infatti, non si trattava di una struttura pionieristica, basata solo sul lavoro volontario e gratuito di una banda di pazzi sognatori, bensì di un’azienda vera e propria, che guadagnava sulla pubblicità come tutti i media moderni. Comunque, la mia trasmissione era atipica, perché aveva un’ora di inizio prestabilita, ma finiva quando lo decidevo io. Avevo voluto così perché non accettavo vincoli di sorta. Anche i generi musicali erano eterogenei e parecchio dissimili. Durante la messa in onda saltavo spesso di palo in frasca, talvolta da un brano rock ad un’aria operistica. Senza altra preoccupazione di far ascoltare solo bella musica. In questo modo non avevo conquistato molti fan, ma i pochi che mi seguivano erano fedelissimi. Squattrinato e sognatore, mi beavo delle lunghe telefonate che ricevevo. Viravano spesso nelle faccende private di chi mi aveva chiamato. Allora come oggi, preferivo lasciare spazio ai miei casuali interlocutori, e quando potevo mi spingevo a dare qualche consiglio sensato, laddove trovavo uno “scoglio” psicologico, un disagio o qualche altro intoppo alla serenità di chi mi affidava le sue confidenze. Capitava che mandassi di seguito più brani dello stesso artista soltanto perché ero troppo impegnato al telefono per accorgermi che la canzone era finita. Quella sera avevo già chiacchierato abbastanza, ed avevo in caldo un paio di dischi che mi piacevano da impazzire. Uno era “La vie en rose” interpretata da Grace Jones. L’altro, il long playing “Heroes” di Bowie. Li misi in sequenza, ma quando arrivai alla metà del brano di Bowie che avevo selezionato sentii un rumore sordo. Pareva un difetto del disco. Ma non era uno scratch (graffio). Tolsi le cuffie e capii che qualcuno stava bussando furiosamente alla porta. Era uno dei due soci proprietari della radio, che abitava sopra lo studio. Mi guardò con gli occhi iniettati di sangue e disse solo: “Se te fè ancora casin te copo” (se fai ancora casino ti ammazzo). Mi scusai e promisi all’istante di non fare più rumore. Fino ad un attimo prima stavo battendo forte il piede al ritmo di “Ashes to ashes”. Era la canzone più bella di quel disco. Cenere alla cenere. Ciao David.